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Il popolo tra realtà politica e finzione ideologica

Authors :
Gatti, Roberto
Source :
Bollettino Telematico di Filosofia Politica (2012)
Publication Year :
2012
Publisher :
Università di Pisa, 2012.

Abstract

Ci si può chiedere quale sia il motivo che spinge ad affrontare la non facile prova consistente nel delineare un percorso di riflessione in chiave filosofica intorno al concetto di “popolo” prendendo in esame il periodo che va dalla prima alla tarda modernità, sino a sfiorare (almeno) l’epoca della quale noi, uomini e donne del presente, siamo protagonisti, il più delle volte molto perplessi e parecchio disorientati.Il perché sta nel tentativo di mostrare che, per quanto questo lungo periodo sia, a proposito del nostro argomento, parecchio complesso e contraddistinto da un esteso pluralismo di punti di vista, presenta però, a mio avviso, almeno una caratteristica unitaria. Si tratta della difficoltà di articolare teoreticamente un concetto di “popolo” sul quale non gravino quei limiti sui quali vorrei concentrare l’attenzione: limiti ovviamente non secondari, ma tali da compromettere gravemente il concetto in questione.In tutto il tragitto che proverò a tracciare, non vorrei semplicemente procedere prendendo nota dei punti oscuri rinvenibili in questa o quella concezione di “popolo”, e così mettere in atto una sorta d’incolore e, tutto sommato, ridondante elenco che collochi uno dopo l’altro gli autori come in una galleria dei nobili fallimenti della filosofia politica dal ‘500 a oggi. La posta in gioco è ben diversa. La presento, per ora molto concisamente, come segue.Nel De republica di Cicerone – importante sintesi di una già consolidata tradizione – è evidente la corrispondenza concettuale tra “res publica” e “populus”: la società politica si dà solo in presenza di un’associazione tenuta insieme “per accordo nell’osservare la giustizia” e “per comunanza di interessi”. Il popolo, che si forma a causa della “naturale inclinazione a vivere bene” presente in ogni essere umano, esprime, nella sua unità etico-giuridica, il senso propriamente politico insito nel condurre un’esistenza in cui è fondamentale sia la concordia del tutto, pur nella pluralità delle parti esistenti entro la civitas, sia la condivisione dei destini. Non c’è politica senza tali requisiti. È superfluo far notare quanto qui sia presente, in un pensiero innestato soprattutto nella tradizione stoica, anche la componente aristotelica.Ora: sappiamo bene che c’è un’interpretazione, da molto tempo largamente egemone, che pone un rapporto genetico tra modernità e politica. I suoi sostenitori asseriscono che solo a partire da Hobbes ci sarebbe la possibilità di parlare in modo sistematico di un’origine del “politico” nella sua essenza propria e nella sua piena autonomia (l’ovvio riferimento è a Carl Schmitt). In controtendenza rispetto a questa linea di pensiero vorrei mostrare – prendendo spunto dalla connessione ciceroniana tra popolo e politica – che, a confronto con il modello esemplarmente presentato da Cicerone, la modernità mette in mostra, in alcuni dei suoi autori maggiormente significativi, un sostanziale scacco, variamente articolato ma unitario dal punto di vista del risultato, nel rendere filosoficamente intellegibile, e quindi coerentemente fondabile, lo spazio proprio della politica.Ho cercato di argomentare in altro luogo questa tesi, la cui sostanza coincide con l’affermazione che il “moderno”, lungi dall’essere il tempo della genesi della politica come prassi e come campo teorico specifici, costituisce invece il lungo momento durante il quale si dipana e si evidenzia la cruciale dimensione dell’impolitico. Essa è ancora incombente su di noi, tardi eredi della modernità, e non solo c’interroga dal punto di vista speculativo, ma ci pressa anche nella concreta e tragica realtà di fatto, come quotidianamente verifichiamo in mille modi. La prassi storica subisce l’assenza della politica in un passaggio d’epoca cruciale come quello che stiamo oggi vivendo. Questo passaggio d’epoca riceve in legato tale assenza dal passato, un passato però quanto mai presente e del quale proprio un succinto esame del problema-popolo consente di illuminare alcuni aspetti rilevanti.Si dirà che la sottolineatura del carattere impolitico del moderno fa parte di una posizione di pensiero, tutto sommato, non certo nuova: minoritaria sicuramente, ma non inedita né particolarmente originale. E, per documentarlo – si aggiungerà – basta evocare i nomi dei cosiddetti nostalgici della polis, da Arendt, a Strauss, a Voegelin, e via procedendo. Saremmo alla solita contrapposizione tra sostenitori di modelli normativi di politica in alternativa l’uno rispetto all’altro, ognuno dei quali accusa l’avversario di fallacia o di tentazione ideologica. Così, però, almeno in questo saggio, non dovrebbe essere. E non solo perché queste poche pagine sono all’insegna della convinzione che argomentare (e non solo contrapporre dogmaticamente) è possibile. Ma soprattutto perché l’obiettivo non è tanto di mettere a confronto modelli, quanto di operare entro quelli che la modernità ci offre e di criticarli iuxta propria principia, facendone risaltare la contraddittorietà o i vari aspetti problematici a partire dal loro interno, dalla loro logica, dalla loro struttura, più o meno sistematica. La critica di impoliticità può quindi esercitarsi in un confronto diretto con i “classici” moderni della politica e può tentare di porre in luce l’impasse nella trama teorica che essi, pur in diverso modo e anche spesso con intenti molto differenti, elaborano.Diciamo, allora, che prima di cimentarsi sul piano normativo, questo saggio si muove sul piano ermeneutico, che certo, come ben sappiamo tutti, privo di presupposti normativi non è mai. Ma chi si colloca su tale piano cerca (o dovrebbe farlo) di avvicinarsi, per quanto possibile, all’oggetto e di comprenderlo in profondità, assottigliando il più possibile le pretese normative – con la consapevolezza, comunque, che, come ci ha insegnato prima di tutti Max Weber, nessuna ricerca, in quanto tale, potrà mai essere “libera dai valori”.Entro questi limiti, quella che segue è una critica della filosofia politica moderna che pone al centro il concetto di “popolo” nel tentativo di vagliarne le implicazioni relativamente a un quadro più generale: la tentata ma, a mio avviso, mai riuscita fondazione teorica dell’ordine politico dopo la crisi della tradizione greco-romana e medievale. O, se lo si vuol dire con uno dei grandi protagonisti di questa storia, Jean-Jacques Rousseau, è un’analisi del significato e delle conseguenze insite nell’immane (e forse “donchisciottesco”, come direbbe Alasdair MacIntyre) sforzo di “instituer un peuple” dopo che la “natura” è stata ormai archiviata quale possibile fondamento, dato e non costruito, della “società ben ordinata”.

Details

Language :
English
Database :
OpenAIRE
Journal :
Bollettino Telematico di Filosofia Politica (2012)
Accession number :
edsair.dedup.wf.001..84f96eac4fbde925e474a80e94139490