Lo studio delle relazioni gerarchiche e delle concessioni di beni che strutturavano la società dell’episcopatus Tridentinus nel corso del Duecento si inserisce appieno nella discussione che negli ultimi decenni sta impegnando gli storici del Medioevo, i quali hanno nuovamente rivolto la propria attenzione alla teoria del feudalesimo. Nel primo capitolo della tesi è così presentato lo stato dell’arte e la storia di questo concetto: gli albori nelle riflessioni dei giuristi francesi del XVI secolo, i quali coniarono la parola feodalité proiettando anacronisticamente la realtà del feudo loro contemporanea su quella medievale; la “fortuna” goduta nel Settecento, quando il feudalesimo divenne il simbolo del tanto odiato ancien régime; la formulazione dei modelli di feudalesimo da parte degli storici del Novecento, che fecero dei legami feudo-vassallatici la chiave interpretativa della società medievale; il rinnovamento storiografico originato dalle critiche di Susan Reynolds alla generalizzazione di tale modello, frutto dei giurisperiti del XII secolo che elaborarono lo ius feudale e redassero i Libri feudorum; le tesi della storiografia tedesca che, a partire da queste critiche, si è concentrata sullo studio dei Libri e della loro diffusione nel Regnum Teutonicum. In questo dibattito Hubertus Seibert ha ipotizzato che il Tirolo storico abbia costituito la via principale per una diffusione “a macchia d’olio” dello ius feudale a nord delle Alpi; la regione tridentina è stata così messa sotto i riflettori dalla medievistica, un rinnovato interesse dal quale prende spunto questa ricerca. Il secondo capitolo è di natura metodologica e in esso sono presentati, secondo le pratiche della storia regionale, gli strumenti su cui si basa la mia indagine. Sono anzitutto descritti i documenti, di cui sono illustrati non solo tipologia e natura, ma anche la storia e i trasferimenti cui furono soggetti e che hanno fatto sì che oggi siano conservati in diversi istituti. In secondo luogo, è presentata la regione indagata assumendo una prospettiva storica, che permette di evidenziare l’evoluzione che nel tempo interessò il territorio sottoposto alla giurisdizione dei vescovi di Trento dalla sua costituzione nel 1027 alla fine del Duecento, quando si affermò l’egemonia dei conti di Tirolo. Lo studio del Duecento, secolo centrale per la formazione della Contea tirolese, ha infine portato a dedicare una parte di questo capitolo metodologico anche alle deformazioni nazionalistiche di cui la storiografia sul XIII secolo (e, in generale, sul Medioevo “tridentino”) è stata autrice tra Ottocento e Novecento per mano degli storici del Tirolo di lingua italiana. Prima di analizzare i feudi e le relazioni personali che caratterizzarono la società tridentina del XIII secolo, nel terzo capitolo si è ritenuto doveroso ripercorre la storia della regione, poiché in passato gli studi di questi fenomeni hanno risentito di una analisi delle fonti spesso condotta a prescindere dal contesto in cui furono redatte. Sono così ricostruite le vicende che segnarono la storia dell’episcopato: il governo dei vescovi e i loro tentativi di preservare la propria autorità fino alla “secolarizzazione” del 1236; l’insediamento di potestates di nomina imperiale e, in particolare, del podestà Sodegerio da Tito, che durante i suoi vent’anni di governo cercò di costruire una propria signoria; la difficile restaurazione del potere dei vescovi e i loro tentativi di contrastare l’ascesa dei conti di Tirolo per mano di Mainardo II, che ampliò i propri domini a discapito della Casadei. Ricostruita la storia della regione tridentina nel XIII secolo, nel quarto capitolo si affronta lo studio delle modalità mediante cui i vescovi impiegarono le relazioni personali e le concessioni di beni (in particolare dei castelli) ut instrumenta regni per problematizzare lo studio delle cause della perdita di potere da parte di questi ultimi. Si tratta dunque di esaminare le strategie con cui i presuli del XIII secolo gestirono l’eredità ricevuta dal vescovo Wanga (1207-1218), che era riuscito a restaurare il potere secolare della Casadei. L’analisi degli atti di investitura castrense e delle modalità con cui tali strutture erano concesse, nonché il confronto fra queste fonti e quelle del periodo wanghiano, mostrano infatti che la perdita dell’autorità episcopale non fu solamente il risultato degli ambiziosi desideri della nobiltà locale, ma anche il frutto delle scelte operate dai successori del Wanga. Nel quinto capitolo l’indagine si concentra infine sulle forme assunte da questi fenomeni e sul modo in cui essi strutturarono la società dell’episcopatus Tridentinus nel corso del Duecento. Lo studio di questi fenomeni è condotto con sguardo diacronico, poiché le relazioni personali che caratterizzarono l’episcopatus Tridentinus andarono incontro nel corso del Duecento a un’evoluzione che trova le sue radici negli anni a cavallo tra XII e XIII secolo e la sua piena matu-razione nel Trecento. L’analisi di questo processo nel particolare periodo d’indagine e il confronto con gli anni immediatamente precedenti e successi evidenzia come all’inizio del XIII secolo sia le relazioni gerarchiche sia le concessioni di beni siano state caratterizzate da sviluppi peculiari, diversi da quelli postulati dal feudalesimo: entrambi i fenomeni non poterono infatti prescindere da un lato dal ruolo “pubblico” ricoperto dai presuli in quanto incaricati dall’imperatore del governo della regione, dall’altro da un’istituzione che a Trento era fondamentale nella gestione degli uomini al servizio dell’episcopio, ossia la macinata Casadei Sancti Vigilii, che riuniva i ministeriales vescovili; in questo torno di tempo si rilevano sì tracce di relazioni feudo-vassallatiche, ma a un’indagine approfondita emerge come tali presenze siano frutto del fatto che i notai, abituati a pensare la quotidianità secondo il modello dei Libri feudorum, descrissero la realtà tridentina tramite un linguaggio tecnico-giuridico a loro consueto, coprendo così le istituzioni locali con una “veste feudo-vassallatica”. Nel corso del Duecento si evidenziano tuttavia l’introduzione e l’adattamento a livello locale di alcune delle norme e delle categorie tipiche del diritto feudale, adottate dai vescovi per garantire i propri diritti sulle proprietà dell’episcopio concesse e per lega-re maggiormente a sé i propri fideles. Emerge dunque un’evoluzione delle consuetudini locali che diminuì lo scarto tra queste e la prassi feudo-vassallatica tipica delle aree lombarde e della Marca trevigiana. Tale processo ebbe come risultato quello di far “scomparire” la ministerialità, che non appare più negli atti vescovile, e di sostituirla con la vassallità, che diventa l’unica forma di legame tra i vescovi e i loro fideles investiti feudalmente; in altri termini, l’introduzione del diritto feudale determinò la modifica non solo dell’immagine, ma anche della struttura stessa della società dell’episcopatus Tridentinus. Infine, in riferimento alla tesi di Seibert, i dati emersi dalla ricerca portano a respingere l’idea che la regione possa essere stata il veicolo di una diffusione “a macchia d’olio” dello ius feudale, e a concordare piuttosto con chi ritiene che il nuovo diritto poté giungere nei territori tedeschi dell’Impero grazie a un vivo contatto tra i giurisperiti lombardo-veneti da un lato, i sovrani e gli uomini delle diverse “corti” imperiali dall’altro.