“Evoluzione” è una parola usata ormai frequentemente dall’uomo comune nonché in tutte le discipline, umanistiche e scientifiche. Culturalmente radicata, è diventata una metafora potente. Una definizione corrente è “sviluppo lento e graduale; svolgimento da una forma a un’altra, generalmente più completa e perfetta” (Garzanti). In questi termini non si parla soltanto dell’evoluzione biologica dell’uomo, ma anche dell’evoluzione del linguaggio, della società, della cognizione umana – a prescindere da un’effettiva conoscenza delle teorie evoluzionistiche. L’evoluzione, in quanto teoria biologica, rimanda quasi automaticamente alla teoria di Darwin, il quale, tuttavia, ha usato il termine solo una volta, nel paragrafo finale del suo celeberrimo L’origine delle specie (1859). Nel concetto di evoluzione è comunemente implicato il passaggio da una specie “primitiva” ad una specie “progredita”, più avanzata o sofisticata e strutturalmente più complessa. Nei suoi scritti, Darwin preferiva parlare di “discendenza con modificazioni” anziché di “evoluzione”, termine usato invece da Bonnet (1762) nella sua teoria dell’homunculus, proprio perché portatore della valenza semantica di “progresso”, non presente nella teoria che Darwin proponeva. Infatti, per quest’ultimo “evoluzione” ha più a che fare con il cambiamento (x --> y) che con il progresso (x --> x+1). L’idea che il concetto di evoluzione abbia a che fare con quello di progresso è in realtà posteriore: nell’accezione più comune del termine è presente l’idea di una temporalità lineare, nella quale l’hic et nunc è visto come la massima compiutezza dello sviluppo, della complessità e della “modernità”, e il passato è visto da un punto di vista situato in un setting storico del presente (antropo-, etno-, euro-, ego-centrico etc), in un’opposizione binaria tra “adesso” e “allora”, tra “noi” e “loro”, tra “progredito” e “primitivo”. Eppure l’evoluzione, in senso stretto, non è teleologica e non c’è un “avanti” o un “indietro”, c’è solo un cambiamento causato dall’adattamento nell’ecosistema in cui l’essere storico si trova. Evoluzione non è necessariamente sinonimo di ottimizzazione (chi può dire che la “prossima generazione” sarà migliore?). La mia ipotesi è che questa metafora (linguaggio) influenza il nostro modo di concepire e ragionare circa un oggetto (pensiero). Anticipando qualche dato, mi avvalgo delle discipline linguistiche, nell’ambito delle quali si parla dell’evoluzione non solo del linguaggio, ma anche della lingua. Ad esempio l’idea che una lingua sia meno complessa sintatticamente, come nel caso della lingua dei Pirahã del Sudamerica, ha generato il giudizio di “primitivismo” nei confronti del popolo che la parla da parte soprattutto di alcuni filochomskyiani e altri1. In altre scienze sociali, alcune manifestazioni culturali, come l’arte, vengono intese come “primitive” o “moderne”, oppure si parla di evoluzione di generi letterari. La dimostrazione forse più eclatante di questo antropocentrismo riguarda il problema del genere Homo, in cui l’avvento dell’Uomo Anatomicamente Moderno si fa coincidere con la nascita della cultura, utilizzando un doppio standard di modernità, visto che Neandertal fu probabilmente molto più simile a noi di quanto si tende a pensare2. L’utilizzo dell’idea di evoluzione come metafora può essere estremamente potente nell’ambiente accademico, ma occorre prestare attenzione alle sue possibili implicazioni. Il mio intento è quello di analizzare questa metafora usata comunemente all’interno delle varie discipline dal punto di vista della linguistica cognitiva (frames e metafore concettuali), mettendo in evidenza come il concetto target eredita delle implicazioni che emergono a causa delle qualità proprie del concetto source, per dimostrare che il modo in cui avviene il framing del concetto condiziona sovente la metodologia di studio, nonché la tassonomia applicata all’oggetto studiato.