Il saggio ha preso spunto da lettere e appunti riservati del patrizio senese Celso Bargagli Stoffi presenti nell’archivio di famiglia (conservato a Montefollonico (SI) in corso di deposito all’Archivio di Stato di Siena), della seconda metà dell’Ottocento. Nel 1888 si rese conto che il figlio diciassettenne Antonio aveva di fatto abbandonato gli studi e si era pericolosamente compromesso con usurai, ballerine e prostitute. Perciò, esercitando la sua “potestà correzionale”, sperimentò varie strategie per indurlo a cambiare vita. La ricchezza della documentazione e la prospettiva tutta interna all’élite cittadina, che vede a confronto parenti, amici, membri delle istituzioni e uomini di legge, fanno di questo singolo episodio un “caso di studio” che, se non può essere generalizzato, offre la possibilità di un’analisi minuziosa delle questioni relative al controllo della gioventù indisciplinata all’interno di un ceto dirigente provinciale in trasformazione. Antonio, rimasto orfano di madre alla nascita, era cresciuto circondato dalle tenerezze delle nonne, degli zii e della governante tedesca, che ne avevano fatto un bambino garbato ma viziato. Quando raggiunse gli 11 anni, il padre ritenne necessario assicurargli un’educazione adeguata al rango di gentiluomo, e lo mandò nel noto collegio dei gesuiti Stella matutina di Felkirch in Austria. L’impatto con la rigida disciplina e un severo sistema di studi, fu traumatico e scatenò in lui la rivolta contro ogni autorità, quindi dopo due anni riuscì a lasciarlo. Il padre si rassegnò a riportarlo in Italia, ma per collocarlo nel collegio della Badia Fiesolana, gestito dai più tolleranti padri scolopi. In pochi anni era avvenuta in lui una profonda trasformazione e a Firenze si avvicinò ai giovani più scapestrati, con i quali prese a condurre la vita dissoluta del libertino. Il padre intervenne alla fine del 1888: lo ritirò dal collegio e lo riportò a Siena per vivere insieme a lui nel palazzo di famiglia, dove avrebbe potuto meglio controllarlo. Ma il ragazzo continuò a sprecare la sua vita in vino, donne, sesso e divertimenti, assumendo tutti i comportamenti antisociali tipici dell’adolescenza: sempre scontento, preda di appetiti sessuali incontrollabili che lo inducevano a comportamenti imprudenti, bugiardo, permaloso, ostile nei riguardi del padre fino alla provocazione, spavaldo e presuntuoso, non rispettava le distanze sociali e ostentava rapporti confidenziali con persone di ceto inferiore o di scarsa moralità. Nessuna azione di parenti, amici e avvocati, riuscì a correggerlo, per cui il padre come estrema risorsa, nel dicembre 1890, chiese al Presidente del Tribunale di Siena, in base all’art.222 del Codice Civile, di rinchiuderlo in un istituto di educazione o di correzione. Si trattò solo di una minaccia, perché, d’accordo con altri nobili senesi esponenti del ceto dirigente, decise di obbligarlo ad un lungo viaggio per mare verso il Cile. I notabili sfuggirono così all’applicazione di una legge dello Stato che avrebbe provocato discredito sociale al gruppo, e idearono una sanzione quasi privata, organizzata grazie a rapporti personali con gli alti livelli istituzionali. Il programma non contemplava nessuna pratica punitiva o rieducativa, ma aveva lo scopo di allontanare il giovane dalle amanti e dai creditori per impedirgli di fare nuovi debiti. Solo la diretta esperienza dei disagi e dei pericoli cui era esposto lontano dalla famiglia avrebbe potuto convincerlo a cambiare vita, perché nessun particolare insegnamento gli venne impartito né nei quattro mesi trascorsi sulla nave né a Valparaiso, dove il console lo trattò come un giovane di riguardo. Non si sa se Antonio si fosse davvero pentito perché, malato di tisi all’ultimo stadio, venne rimandato in fretta in Italia, morendo però sulla nave tre giorni prima di toccare il porto di Genova nel settembre 1891, dopo aver da poco compiuto vent’anni.