A partire dagli anni ’90 del secolo scorso i processi di internazionalizzazione delle imprese localizzate in economie avanzate hanno evidenziato una significativa accelerazione; un numero crescente di unità produttive ha cominciato a spostare quote importanti delle propria struttura manifatturiera verso le economie emergenti. La delocalizzazione si è da subito presentata come un fenomeno composito e dalle innumerevoli sfaccettature; le pratiche delocalizzative vanno infatti dalla creazione di nuove imprese in territorio straniero all’acquisizione del controllo di imprese estere fino alla stipula di accordi di subfornitura, quest’ultima forma molto utilizzata dalle PMI dei distretti italiani (Capitalia, 2005). I motivi che hanno spinto e spingono tuttora a delocalizzare sono principalmente la ricerca di una riduzione dei costi del lavoro e la possibilità di insediarsi in mercati emergenti con grandi potenzialità di crescita. Per questo motivo si è portati a pensare alla delocalizzazione come la strategia ottimale per fronteggiare la crescente concorrenza delle imprese localizzate in paesi in via di sviluppo, che grazie alla quasi totale assenza di garanzie lavorative e di vincoli in materia di tutela ambientale possono produrre a costi contenuti inondando i mercati internazionali di prodotti a prezzi molto bassi. Il fenomeno è evidente in quei settori industriali a scarso contenuto tecnologico, quale è il comparto del “made in Italy”, dove l’efficienza è principalmente perseguita attraverso strategie di contenimento dei costi. La facile imitabilità dei processi e dei prodotti rende questo comparto particolarmente vulnerabile alla concorrenza estera, spingendo molte delle imprese nazionali a ritrovare la competitività persa spostando tutti o buona parte dei processi produttivi all’estero, magari attraverso forme di subfornitura a scapito dei partner locali. In alcuni casi alla delocalizzazione si è aggiunta una vera e propria riconversione dell’attività produttiva fino a quel momento svolta nel territorio d’origine . Se da un lato è quindi lecito considerare la delocalizzazione come l’ancora di salvezza di imprese altrimenti destinate all’inevitabile declino, dall’altro è opportuno considerare i possibili cambiamenti che tale processo può generare nel medio periodo, soprattutto se le imprese interessate sono collocate all’interno di un distretto industriale. Il sistema locale del distretto ha proprio nel radicamento territoriale delle imprese e nei rapporti stretti che si instaurano tra queste il suo naturale punto di forza; l’emorragia di fasi produttive generata dalla delocalizzazione può dare il via ad un progressivo trasferimento di risorse e competenze all’esterno del sistema locale, compromettendo la capacità innovativa del distretto e contribuendo al deterioramento del capitale sociale, cioè del patrimonio di conoscenze, relazioni e sinergie che si è sviluppato e accumulato all’interno del territorio (a tal proposito si veda Micuzzi, Nuzzo 2005). La delocalizzazione produttiva che va a sostituire attività inizialmente svolte nel distretto provoca un trasferimento di informazioni e attività relazionali all’esterno di questo, in quanto l’attività manifatturiera cessa di impegnare le unità produttive locali coinvolgendo invece imprese estranee alla realtà del territorio. I legami interni consolidatisi nel tempo vanno così incontro ad una inevitabile rottura generando un diradamento della rete di relazioni locali e la riduzione dell’investimento relazionale da parte delle imprese che delocalizzano, da cui il progressivo deteriorarsi del capitale sociale locale, che nei casi peggiori potrebbe concludersi con il dissolvimento del distretto. Per capitale sociale locale intendiamo l’insieme dei fattori relazionali, quali la fiducia, lo scambio di informazioni, la condivisione di progetti e la cooperazione, sulla base dei quali è costruita la rete di rapporti tra le imprese del distretto e che contribuiscono in modo determinante all’aumento di produttività delle stesse. Per quanto riguarda gli effetti della delocalizzazione sull’occupazione locale, il tanto temuto spiazzamento occupazionale non sembra, almeno per il momento, essersi verificato; ad una iniziale riduzione dell’occupazione operaia, impiegata nell’attività manifatturiera a scarso contenuto di capitale umano, è infatti generalmente seguito un aumento dell’occupazione nelle qualifiche più alte che ha compensato buona parte delle perdite iniziali (Schiattarella, Rossetti 2003, Graziani 2003, Confindustria 2005). Adottando l’approccio proposto da Antoci-Sacco-Vanin (2005), nei paragrafi successivi è sviluppato un modello evolutivo che tenta di mettere in luce i meccanismi di base che conducono le imprese distrettuali a delocalizzare e gli effetti che tale processo ha sull’accumulazione di capitale sociale locale. Il capitale sociale che è la fonte delle economie di localizzazione, è espresso come funzione sia degli investimenti relazionali realizzati da ogni impresa locale che della dimensione della rete di relazioni presente nel distretto. Il modello è sviluppato in tre versioni; per prime si studiano le dinamiche in un contesto strategico dicotomico, in cui le imprese possono decidere se delocalizzare, avendo a disposizione un unico modello di delocalizzazione, o rimanere nel distretto. I modelli di delocalizzazione sono distinti in “delocalizzazione totale” in cui l’impresa trasferisce tutta la propria struttura produttiva al di fuori del distretto, e “delocalizzazione parziale” in cui solo alcune fasi sono delocalizzate. Nell’ultima versione i due modelli di delocalizzazione sono considerati congiuntamente. Dall’analisi del modello, nelle sue differenti versioni, emergono i seguenti risultati: 1) anche se la delocalizzazione è un equilibrio Pareto-dominato, il sistema può tuttavia convergere verso tale equilibrio se il capitale sociale e umano iniziali localizzati nel distretto sono bassi; 2) l’uscita di imprese dal distretto e lo spiazzamento dell’occupazione locale possono essere contrastati attraverso un sistematico upgrading dei processi produttivi; qualora la delocalizzazione interessi una quota consistente dei processi produttivi si può infatti verificare il graduale dissolvimento del distretto (in termini di azzeramento del capitale sociale locale), al quale è possibile rimediare solo attraverso una opportuna riqualificazione del contesto istituzionale locale, l’innalzamento, se praticabile, dei livelli qualitativi della produzione e gli opportuni incentivi all’investimento relazionale da parte delle imprese locali. 3) rendendo il capitale umano endogeno e considerando la delocalizzazione parziale emerge la possibilità che in equilibrio le imprese, nel delocalizzare alcune fasi della produzione, lascino all’interno del distretto quelle a più alta intensità di capitale umano; 4) nella versione completa del modello la delocalizzazione parziale si presenta come uno stato transitorio, che se non sostenuto da un opportuno livello di capitale sociale, può convertirsi in una graduale uscita di tutte le imprese con la conseguente scomparsa del distretto.